Tradizionalismo, Trento e Vaticano II: la fede non è estetica, è comunione
I tradizionalisti sono rimasti ancora legati all’impostazione ecclesiologica del Concilio di Trento, dove la Chiesa era concepita esclisivamente come una “società perfetta”, gerarchicamente organizzata, e la Messa come sacrificio propiziatorio centrato sulla presenza reale di Cristo. È una visione che ha avuto la sua ragion d’essere, ma che oggi rischia di oscurare un’altra dimensione fondamentale: la Chiesa stessa è sacramento.
Il Concilio di Trento, nel contesto della Riforma protestante, ha giustamente voluto ribadire la centralità della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia:
“Il sacrosanto Concilio insegna e professa chiaramente che nel divino sacramento dell’Eucaristia, dopo la consacrazione, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente il nostro Signore Gesù Cristo.” — Concilio di Trento, Sessione XIII
In quel clima di contrapposizione, si è messo da parte il senso comunitario della celebrazione eucaristica, per evitare confusioni con le posizioni protestanti, che negavano il sacerdozio ministeriale e riconoscevano solo il sacerdozio battesimale. La Messa è diventata, per molti, un atto individuale, un momento di devozione personale, più che un evento ecclesiale.
Eppure, già nel decreto tridentino sull’Eucaristia si intravedeva un’intuizione più ampia:
“Il nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa [l’Eucaristia] come segno di unità e di amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti ed uniti fra loro.” — Concilio di Trento, Sessione XIII, Capitolo I
Questa visione, però, non fu sviluppata. La Chiesa preferì mettere l’accento su alcuni elementi — la transustanziazione, il culto, la venerazione — e trascurò altri, come la partecipazione attiva della comunità e il carattere pasquale dell’Eucaristia.
Il Concilio Vaticano II ha cercato di colmare questa lacuna, recuperando la visione della Chiesa come sacramento di comunione, come corpo mistico di Cristo, come segno della comunione trinitaria.
“La Chiesa è ‘un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.’” — Lumen Gentium, n. 4
“Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo […] partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore.” — Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1322
“L’Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fede: ‘Il nostro modo di pensare è conforme all’Eucaristia, e l’Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare.’” — CCC, n. 1327
“Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio: si tratta, infatti, di una sola e identica vittima.” — CCC, n. 1367
Queste affermazioni mostrano chiaramente che non è solo il sacerdote a celebrare, ma tutta la comunità. La liturgia è azione del Cristo totale, capo e membra, come afferma la Sacrosanctum Concilium.
Il problema, però, è che molti cristiani vivono ancora i sacramenti in modo individualista, come atti privati di devozione, senza alcuna apertura alla comunione fraterna. Ecco perché tante comunità parrocchiali sono spiritualmente sterili: non vivono la comunione, non celebrano la fraternità, non incarnano il mistero che professano.
In questo contesto, ritengo profondamente sbagliato — e sintomo di una crisi di fede — insistere sul rito tridentino come se fosse l’unico modo autentico di vivere l’Eucaristia. Quando la liturgia viene ridotta a una questione di “bellezza”, si tradisce la sua natura profonda. Come ha osservato un commentatore:
“La Messa tridentina è più bella.”
Ma la liturgia non è un’opera d’arte da ammirare. È il luogo in cui si vive il mistero pasquale, dove la comunità si unisce a Cristo nella sua offerta al Padre. Non si tratta di un piacere estetico, ma di partecipare alla Pasqua del Signore, che è comunione, trasformazione, vita nuova.
La Messa tridentina riflette ciò che la Chiesa voleva affermare nel XVI secolo: il sacerdozio ministeriale, il valore sacrificale, la centralità del rito romano, la difesa dell’ortodossia contro la Riforma.
Oggi, invece, la Chiesa vuole mostrare che è comunione, popolo di Dio, segno dell’amore trinitario. Non basta il rito: serve una Chiesa che vive ciò che celebra.
“La liturgia non può essere il risultato di regolamenti ecclesiastici, ma deve essere il frutto della vita e della vitalità della Chiesa.” — Joseph Ratzinger
Il Vaticano II ha bisogno di tempo. Così come ci vollero due secoli perché il rito romano fosse accettato ovunque dopo Trento, anche la riforma liturgica conciliare richiede pazienza, formazione, conversione.
È tempo che i tradizionalisti , e non solo, ubbidiscano a quanto lo Spirito Santo ha suscitato nel Concilio Vaticano II. Non si tratta di abbandonare la tradizione, ma di purificarla, approfondirla, realizzarla pienamente.
La vera domanda non è: “Quale rito è più bello?” La vera domanda è: “Quale Chiesa celebriamo?”
Celebriamo una Chiesa gerarchica e chiusa, o una Chiesa che è comunione, popolo di Dio, segno dell’amore trinitario? Celebriamo un rito, o viviamo il mistero pasquale?
La risposta non sta nella nostalgia, ma nella fedeltà al Vangelo e all’azione dello Spirito.
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