Sacramenti senza comunione? Il rischio di una fede sterile
Negli ultimi secoli, la Chiesa ha investito giustamente moltissimo nella difesa della dottrina e nella celebrazione dei sacramenti. È stato un lavoro prezioso, soprattutto nei momenti di crisi, come durante la Riforma protestante. Ma questo approccio ha avuto anche un effetto collaterale: ha reso la fede, per molti cristiani, una questione di "pratiche religiose" più che di relazioni vive.
Ancora oggi, tantissimi fedeli vivono la loro spiritualità come un insieme di gesti sacri — andare a Messa, confessarsi, battezzare i figli — senza però coltivare il desiderio di comunione, di unità, di fraternità. È come se bastasse “fare il proprio dovere” davanti a Dio, senza preoccuparsi troppo di chi ci sta accanto.
Nelle parrocchie si respira spesso un clima di anonimato. Ci si saluta con un cenno, si partecipa alla liturgia come spettatori, si torna a casa senza aver scambiato una parola. Il senso di comunità è debole, frammentato. E quando emergono gruppi più attivi, spesso si chiudono in se stessi, generando conflittualità, atteggiamenti elitari, dinamiche che sembrano più da club privato che da Chiesa di Cristo.
Ma il Vangelo non è un rito da consumare. È una chiamata a vivere insieme, a portare i pesi gli uni degli altri, a costruire relazioni autentiche. I sacramenti sono il cuore della vita cristiana, sì — ma senza comunione, diventano gusci vuoti.
Il Concilio Vaticano II ha provato a invertire la rotta, parlando di Chiesa come “Popolo di Dio”, riscoprendo la corresponsabilità dei laici, la liturgia come esperienza comunitaria, il dialogo come via di unità. Ma il cambiamento non avviene per decreto. Serve una conversione del cuore. Serve che ogni cristiano si chieda: sto vivendo la mia fede come parte di un corpo, o come un’isola?
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