Amici tradizionalisti perchè mentite?
Leggendo alcuni blog di orientamento tradizionalista, si nota un ricorso frequente a mistificazioni, semplificazioni storiche e affermazioni infondate volte a sostenere la superiorità della cosiddetta “Messa di sempre”. L’espressione “Messa di sempre” riferita al Messale di san Pio V è storicamente scorretta e non suffragata da fonti documentali attendibili. Si tratta di una formula retorica che può suggestionare i meno esperti, ma che non regge alla luce della storia liturgica.
Il Messale promulgato da san Pio V nel 1570, in seguito al Concilio di Trento, non fu una creazione ex novo né una restaurazione dell’epoca apostolica, ma una rielaborazione della liturgia romana altomedievale, in particolare del Sacramentario gregoriano del VI secolo. Lo conferma la stessa bolla di promulgazione Quo Primum Tempore, che afferma che i padri incaricati della revisione liturgica “hanno riportato il Messale al suo antico splendore”. Questo implica un ritorno a una forma liturgica consolidata nel primo millennio, non alle origini apostoliche.
Come osserva lo storico Adrien Fortescue, “il nostro Messale è essenzialmente il Sacramentario Gregoriano, modellato sul libro gelasiano, che a sua volta dipende dalla collezione leonina”. Anche il beato Ildefonso Schuster riconosce che il Messale tridentino riflette la tradizione romana medievale, non una liturgia apostolica.
Alcuni autori tradizionalisti spingono oltre, attribuendo il Messale di san Pio V direttamente agli apostoli o addirittura a Gesù stesso. In un’intervista, don Nicola Bux ha affermato che “Gesù ha imboccato gli apostoli” durante l’Ultima Cena, suggerendo una trasmissione diretta del rito. Tuttavia, questa interpretazione contrasta con il testo evangelico, che riporta le parole di Gesù: “Prendete e mangiate… Prendete e bevete…” (Mt 26,26-27), senza alcun riferimento a gesti di imboccamento o a una liturgia codificata. Altri ancora sostengono che gli apostoli potessero toccare l’ostia perché già vescovi, ma anche questa affermazione è priva di fondamento storico e teologico. La Chiesa non ha mai definito con precisione il grado sacramentale degli apostoli durante l’Ultima Cena, né ha mai sostenuto che il rito tridentino fosse una trascrizione diretta di quell’evento.
Molti tradizionalisti associano il fasto della liturgia tridentina — l’uso di merletti, l’oro dei paramenti, la complessità rituale — a una presunta maggiore verità o superiorità teologica rispetto al rito di Paolo VI. Ma questa equivalenza è teologicamente infondata. Non è il fasto, né la ricchezza dei paramenti, né la complessità cerimoniale a rendere un rito “più vero”. Come ha ricordato Benedetto XVI, “nella liturgia, la bellezza deve essere al servizio del mistero, non della nostalgia o dell’estetismo”. Il Concilio Vaticano II ha riaffermato che “la liturgia è culmine e fonte della vita cristiana” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), non un museo di forme passate.
Un altro errore diffuso è l’associazione di alcune pratiche liturgiche — come comunicarsi in ginocchio o ricevere la comunione sulla lingua — a una presunta maggiore devozione. Ma si tratta di interpretazioni moderne e ideologiche, non fondate sulla storia della Chiesa antica. La genuflessione non era praticata nella liturgia del primo millennio. Essa fu introdotta più tardi nella Chiesa latina come gesto di adorazione, mentre le Chiese orientali preferivano l’inchino profondo (metanoia). La comunione sulla mano era la norma nei primi secoli. San Cirillo di Gerusalemme (IV sec.) scrive: “Ponendo la sinistra come trono della destra che deve ricevere il Re. Con la mano concava ricevi il Corpo di Cristo e rispondi: amen” (Catechesi Mistagogiche, V, 21). Anche san Giovanni Damasceno e altri Padri confermano questa prassi, che esprimeva riverenza e partecipazione attiva.
Nemmeno l’uso del latino, pur essendo la lingua liturgica della Chiesa latina, rende un rito più vero o superiore. Il Messale di Paolo VI può essere celebrato integralmente in latino, e lo è regolarmente in molte comunità, compresi i monasteri e le celebrazioni papali. L’uso del latino non è esclusivo del rito tridentino. Inoltre, la lingua liturgica originaria della Chiesa era il greco classico, non il latino. Nei primi secoli, la liturgia romana era celebrata in greco, lingua della cultura e della comunicazione ecclesiale. Il latino fu introdotto gradualmente proprio per rendere la liturgia comprensibile al popolo, man mano che il greco diventava meno accessibile. Come ricorda il liturgista Enrico Mazza, “la scelta del latino fu una scelta pastorale, non ideologica”.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: perché mentire? Perché inventare storie infondate, attribuzioni fantasiose, interpretazioni forzate per avvalorare tesi che non reggono alla luce della storia, della teologia e del magistero? Perché costruire una narrazione che confonde il popolo di Dio, alimentando divisioni e nostalgie che non edificano?
La verità è che non si può tornare indietro. La riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II e attuata dai Papi — da Paolo VI a Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI a Francesco — è irreversibile. Non si tornerà mai più al Messale di san Pio V come norma universale. Semmai, si andrà verso un suo progressivo abbandono, nel rispetto delle comunità che ancora lo celebrano, ma senza alimentare illusioni restaurazioniste. Come ha affermato papa Francesco nel motu proprio Traditionis custodes (2021), “le liturgie riformate sono l’unica espressione della lex orandi del rito romano”. E come ha ribadito il cardinale Roche, prefetto del Dicastero per il Culto Divino, “la riforma liturgica è frutto dello Spirito Santo e non può essere considerata provvisoria o opzionale”.
La liturgia è il luogo della comunione, non della nostalgia. È il linguaggio della Chiesa che cammina nella storia, non il rifugio di chi rifiuta il presente. La verità non ha bisogno di merletti, né di latinismi, né di gesti teatrali: ha bisogno di cuore, di comunità, di fedeltà al Vangelo.

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