Il Giubileo LGBT e la sfida della coerenza cristiana
Il Giubileo LGBT del 2025 ha suscitato reazioni contrastanti, soprattutto da parte di ambienti cattolici tradizionalisti, che lo considerano un tradimento della dottrina e della tradizione della Chiesa. Per molti, l’inclusione delle persone LGBTQIA+ in un evento giubilare appare come una rottura con l’insegnamento che ha storicamente condannato l’omosessualità come peccato. Ma questa posizione solleva una domanda cruciale: la Chiesa è chiamata a giudicare o ad accompagnare?
La Chiesa non è un tribunale che emette sentenze sui peccatori, ma è una madre che accoglie, accompagna e cura. Se in passato, anche sotto il condizionamento culturale e sociale, è stata particolarmente severa con i peccati sessuali, spesso ha mostrato una sorprendente indulgenza verso i peccati sociali: lo sfruttamento dei poveri, le ingiustizie nel mondo del lavoro, l’arricchimento illecito, la corruzione. Eppure, proprio questi peccati — lo sfruttamento, l’oppressione, l’ingiustizia — sono definiti dalla tradizione come “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”.
Dove sono le denunce contro gli imprenditori che sottopagano i lavoratori? Dove sono le veglie per le vittime della precarietà e dell’abuso economico? Perché alcuni cattolici si scandalizzano per il Giubileo LGBT, ma non per le ingiustizie che colpiscono milioni di persone ogni giorno? Questa selettività rischia di trasformare la morale cristiana in uno strumento ideologico, anziché in un cammino di giustizia e misericordia.
Oggi la Chiesa, guidata da una visione più evangelica e meno legalista, vuole essere inclusiva, sottolineare la misericordia come medicina per il peccato, e non comportarsi più come una giudice che condanna. Il giudizio spetta solo a Dio. Il compito della Chiesa è quello di accompagnare, ascoltare, abbracciare chiunque cerchi Dio, anche tra le ferite e le contraddizioni della propria vita.
Come ha più volte denunciato Papa Francesco, in certi ambienti tradizionalisti si respira un pelagianesimo moderno, una visione moralistica della fede che alimenta la nostalgia per una Chiesa dura, arcigna, pronta a condannare piuttosto che a comprendere. Questo spirito rischia di svuotare il Vangelo della sua forza liberante, trasformando la fede in una serie di regole da osservare, invece che in un incontro vivo con la misericordia di Dio.
Papa Francesco lo ha ribadito con forza: “L’Eucaristia non è il premio dei perfetti, ma il pane dei peccatori”. E allora, chi è davvero “puro” agli occhi del Signore? Specialmente per quanto riguarda i peccati sessuali, che alcuni nemmeno più confessano, non perché siano meno gravi, ma perché non li percepiscono più come peccato, o li vivono in una dimensione di solitudine e incomprensione. La Chiesa non può diventare il luogo dove si misura la purezza, ma deve essere il rifugio dove si sperimenta la grazia, la tenerezza di Dio, la possibilità di ricominciare.
In questo contesto, il Giubileo LGBT assume anche un valore ecclesiale profondo: mostra chiaramente come Papa Leone XIV intenda proseguire il magistero del suo predecessore, in continuità con l’orientamento pastorale di Papa Francesco. A dispetto di chi aveva già tentato di contrapporre Leone XIV a Francesco, dipingendolo come un’alternativa più conservatrice, questa iniziativa dimostra che la Chiesa non torna indietro, ma continua a camminare verso una maggiore inclusione, fedeltà al Vangelo e attenzione alle periferie esistenziali.
Il Giubileo LGBT non è una provocazione, ma un segno profetico: una Chiesa che non chiude le porte, ma le spalanca. Una Chiesa che non teme di camminare con chi è stato escluso, perché sa che la santità non nasce dalla perfezione, ma dalla relazione con l’Amore di Dio.

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