Riflessioni sulle affermazioni di Don Curzio Nitoglia
Ho seguito con interesse uno dei video di Don Curzio Nitoglia, presbitero noto nel mondo tradizionalista, dedicato alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Pur apprezzandone la coerenza e la passione, sento il bisogno di proporre una riflessione alternativa, basata su documenti ufficiali, fonti patristiche e teologiche, oltre che sulla storia viva della Chiesa, poiché alcune sue considerazioni mi sembrano parzialmente inesatte e scorrette. Il mio scopo non è creare polemiche, ma promuovere un confronto serio e rispettoso, in grado di cogliere la complessità del tema e la ricchezza delle prospettive che hanno contribuito allo sviluppo della liturgia.
Partendo da una delle espressioni centrali di Don Curzio, “lex orandi, lex credendi”, è importante riconoscerne la verità, ma anche i suoi limiti. Il modo di pregare può certamente influenzare la fede, ma non la determina in modo esclusivo né meccanico. La Chiesa, nella sua cattolicità, ha sempre accolto una pluralità di riti: romano, ambrosiano, mozarabico, bizantino, siriaco, copto… tutti legittimi e pienamente cattolici. La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium afferma che “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua forza” (n. 10), e che “la Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti” (n. 4). Il Novus Ordo Missae, promulgato da Paolo VI nel 1969, conserva integralmente la dottrina cattolica sulla presenza reale, la transustanziazione e il sacrificio eucaristico, come chiaramente indicato nell’Institutio Generalis Missalis Romani.
È vero che il Concilio Vaticano II non ha formalmente abrogato il Messale di San Pio V, ma ha incoraggiato una riforma per aggiornare un rito che, pur rispettabile, non rispondeva più alle esigenze pastorali moderne. Mi auguro che Don Curzio comprenda come la coesistenza di due forme dello stesso rito romano sia una situazione anomala nella storia liturgica, causando tensioni ecclesiologiche e pastorali. Papa Francesco, nel motu proprio Traditionis custodes (2021), ha sottolineato che “le celebrazioni secondo il Messale antecedente al 1970 rischiano di diventare strumenti di divisione e rifiuto del Concilio e della sua riforma liturgica”. La presenza di due calendari, cicli di letture e discipline rituali nel medesimo rito romano può confondere i fedeli e compromettere la visibilità dell’unità ecclesiale. La liturgia, come segno di comunione, non può essere frammentata senza conseguenze.
Don Curzio sa bene che la riforma liturgica non è nata nel 1969, ma è il frutto maturo di un lungo cammino ecclesiale. Il Movimento Liturgico, attivo sin dal XIX secolo, ha posto le basi per un rinnovamento autentico. Dom Lambert Beauduin, già nel Congresso di Malines del 1909, auspicava una “Messa dialogata” e una partecipazione attiva dei fedeli, sostenendo che “la liturgia deve essere la preghiera del popolo, non solo del sacerdote”. Dom Prosper Guéranger avviò la restaurazione del rito romano e del canto gregoriano, denunciando le incrostazioni rituali post-rinascimentali. Romano Guardini metteva in guardia dal rischio di formalismo, affermando che “quando il rito diventa incomprensibile, si svuota di significato”. Pius Parsch, liturgista e pastore, criticava l’eccessiva clericalizzazione e promuoveva la “Messa del popolo”, sostenendo che “la liturgia deve essere la vita della Chiesa”.
Numerosi santi hanno sostenuto il rinnovamento liturgico. San Pio X, nel motu proprio Tra le sollecitudini (1903), promosse la partecipazione attiva, definendo la liturgia “fonte primaria e indispensabile dello spirito cristiano”. San Giovanni XXIII, convocando il Concilio, avviò già una semplificazione con il Messale del 1962. San Paolo VI difese la riforma come segno di fedeltà e vitalità ecclesiale: “La riforma liturgica è un segno della fedeltà e della vitalità della Chiesa” (Udienza generale, 19 novembre 1969). San Josemaría Escrivá accettò con obbedienza il nuovo rito, sottolineando che ciò che conta è la fede e la devozione.
Antonio Rosmini, nel suo saggio Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), denunciava come prima “piaga” la separazione tra clero e popolo nel culto pubblico: “La divisione del popolo dal clero nel pubblico culto [...] nasce quando il popolo non intende i riti e le preghiere che il clero recita nelle sacre funzioni”. Pur riconoscendo la validità del rito tridentino, ne evidenziava il limite pastorale. Il suo pensiero anticipa le istanze del Movimento Liturgico e del Concilio, che hanno cercato di sanare questa “piaga” restituendo al popolo un ruolo attivo nella celebrazione.
Celebrando rivolti al popolo, come avveniva nella basilica di San Pietro fin dall’antichità, non si nega il mistero, ma si valorizza la dimensione comunitaria. La celebrazione ad alta voce favorisce la partecipazione attiva, come richiesto dalla Sacrosanctum Concilium (n. 14). Mistero e silenzio non sono esclusi dal nuovo rito: dipendono dalla formazione liturgica e dalla cura pastorale.
La comunione sulla mano è una prassi antica e legittima. San Cirillo di Gerusalemme, nel IV secolo, scriveva: “Poni la tua mano sinistra come trono della destra, che deve ricevere il Re” (Catechesi Mistagogica V, 21). La Chiesa ha reintrodotto questa modalità con l’istruzione Memoriale Domini (1969). Non è una pratica sacrilega, ma richiede formazione e consapevolezza. La riverenza nasce dal cuore, non dalla posizione delle mani.
La validità del Novus Ordo Missae è stata confermata più volte dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ogni Messa celebrata secondo il rito approvato dalla Chiesa è valida e legittima, purché siano presenti materia, forma e intenzione. La formula della consacrazione è corretta. La validità del sacramento non è mai stata messa in dubbio ufficialmente dalla Chiesa.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II è stata un atto di fedeltà alla Tradizione, non una sua negazione. Come ha scritto Joseph Ratzinger, “il rito è una forma vivente di paràdosis, in cui si esprime la fede della Chiesa e la comunione con gli oranti di ogni tempo”. Criticare gli abusi è doveroso. Ma rigettare la riforma in blocco significa ignorare il cammino della Chiesa, la voce dei santi e il discernimento dei pastori. La liturgia non è un campo di battaglia ideologico, ma il luogo in cui la Chiesa celebra il mistero della salvezza. E se è vero che il Messale di San Pio V non è stato abrogato, è altrettanto vero che non è sostenibile, né ecclesiologicamente né pastoralmente, mantenere due forme dello stesso rito romano con due calendari liturgici, due cicli di letture e due linguaggi rituali. L’unità visibile della Chiesa passa anche attraverso l’unità celebrativa.
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| Don Curzio Nitoglia |

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